Articolo di: Silvia Selviero
E rimane il mio tormentone: Qual è stato il tuo primo amore LGBT? Ma chi ti ha tirato dentro? Da quanto sei dentro? E, se ne sei fuori, come mai sei così interessata alla causa? Ma il femminismo, come l’hai scoperto? Voglio dire, non che il femminismo non sia anche delle donne etero e cissessuali, ma il tuo è parecchio, troppo intersezionale, come è possibile? Che ci fai qui?
Come
mai ti interessa così tanto la causa LGBT? Come ti sei avvicinata al
femminismo, quali sono stati i tuoi primi contatti col femminismo? Ricordi il
tuo primo amore? Che ci fai qui?
Benvenuti nei miei classici tormentoni da dodici anni
a questa parte, di molto intensificati da quando sono un’attivista per i
diritti LGBT. Lo so, c’è chi dice che non dovrei definirmi così, che non ho
l’autorità per farlo, essendo io una ragazza etero e cissessuale – che ogni
tanto ha il dubbio di essere un po’ non binaria… servono ulteriori indagini.
Però la passione non me la toglie nessun*, e neppure la definizione del
vocabolario, di grande conforto durante una crisi di identità o due: “Attivista è una persona che agisce sulla
spinta di idee che ritiene giuste per produrre un cambiamento per sé e per gli
altri.”
Dicevo, i miei tormentoni. È una cosa contro cui
sbatto la testa da quando avevo dodici, tredici anni. Pronunciata da più di una
stazione radio in formato umano, anche. I miei, che ancora oggi non si
capacitano del perché il mondo LGBT “se non mi riguarda” mi stia tanto a cuore,
pur essendo due persone non prive di cultura, empatia e, devo dire, abbastanza
LGBT friendly da essersi conosciuti tramite un paio di amici gay in comune
senza il quale io non sarei nata. La mia famiglia allargata, che alla classica
domanda sul fidanzatino si vedeva rispondere con impassibile filosofia frasi
stile “Perché dai per scontato che mi piacciano i ragazzi? Mi piacciono, quello
che mi preme è perché non ti passi per la testa il contrario”. I miei compagni
di classe, bulli convinti che “chi difende i gay è gay” (ma non che chi difende
i diritti dei paguri albini sia un paguro albino, apparentemente), e che stanno
bene dove stanno: chiusi in un cassetto del passato. E una miriade di altre
persone – tra giornalisti, semplici curiosi, mamme di ragazzi FtM, altr*
attivist*, persone queer, persone transgender o omosessuali cisgender – che un
po’ piacevolmente meravigliate un po’ sconcertate un po’ sospettose o sulla
difensiva mi chiedono “Ma… se non hai scoperto la comunità LGBT da persona
LGBT, se non avevi un* parente, un’amicizia, un amore LGBT che ti ci ha tirato
dentro, se già da piccola non eri così mascolina da essere scambiata per una
ragazza lesbica e non hai mai avuto il minimo dubbio sul tuo interesse per i
ragazzi o sul tuo sentirti donna, da dove nasce il tuo attivismo?”
Riavvolgiamo il nastro e oh, se volete che canti io
canterò.
Se c’è una cosa che ho sempre amato è imparare. Non
tanto studiare, quanto la consapevolezza di aver trovato i pezzi di una
fotografia nascosta sotto il tappeto, averli messi insieme e scoperto che la
foto ricostruita era un angolo di mondo che non conoscevo. E qui e là c’era
anche una piccola parte che riconoscevo di me stessa, o c’era qualcosa che mi
sembrava del tutto vero, o idee che mi sarebbero servite nella vita. Una foto
tridimensionale, di cui, se mi sporgevo, potevo scoprire sempre nuove
profondità, e in men che non si dica scoprire che anche io avevo uno sguardo,
un’opinione, che una parte di realtà poteva cominciare pure da me. Che magari io
stessa ero un angoletto di quella foto! Perché quella foto aveva altri pezzi,
tutti da trovare, milioni di miliardi di pezzi, e più ne trovavo più mi sarei
accorta che comprendeva altre persone, che comprendeva
l’intero universo.
Per questo, o per l’essere sensibile all’arte, o per l’avere
un padre appassionato di cinema, quello che preferite, quando un bel giorno dei
miei dodici anni sono stata incuriosita dalla copertina del DVD di Stand By Me – Ricordo di un’estate non
me lo sono fatto scappare. Grande cotta, quel film (ma non per mio padre, che
si lamentava del fatto che lo rivedevo di continuo!), e grande cotta River
Phoenix, forse la prima stella del cinema della mia vita, visto che una volta
che un film o un libro mi piacevano io dovevo smanettare su quel macinino di
computer che avevamo e scoprire tutto di chi aveva contribuito a quella
meraviglia. Beh, salta fuori che tra le moltissime cose che il James Dean degli
anni Novanta aveva fatto tra vita privata e carriera c’era il film My Own Private Idaho. Leggo la trama incentrata
su prostituzione maschile, on the road movie sperimentale di Gus Van Sant, un
ventunenne narcolettico che cerca di proteggersi dal mondo ma ha solo bisogno
di amore, e, un po’ titubante, un po’ interessata, un po’ convinta di fare una
cosa vietata/segretissima, scelgo di cercare su YouTube – visto che di
comprarlo, controllata com’ero allora, non se ne parlava proprio. Si dirà che
ho cominciato bene! Però alla stessa età Joumana Haddad ha scoperto di Justine, ovvero le disavventure della virtù nella
grande biblioteca di casa dei suoi a Beirut…
Un click tira l’altro e la mia curiosità è
insaziabile, così comincio ad avvicinarmi al cinema omosessuale e,
gradualmente, all’omosessualità in generale. Grazie al cielo esistevano i
forum: all’epoca, leggere di ragazzi della mia età alle prese con problemi come
“Omosessualità e genitori: che fare?”, storie di amicizia, di solitudine,
magari di bullismo come il mio calvario quotidiano, di coraggio, di piccole
vittorie… e anche di persone più grandi con una storia di dieci anni, o che
cercavano di emanciparsi da un paesino dalla mentalità ristretta, che si erano
sposate in Spagna, o facevano dibattiti su quel giornalista troppo offensivo e
quell’amara verità sulle dark room, sul giro gaio di Formentera, su quel libro
troppo bello a tematica gay/lesbica che ti salva la vita… mi hanno aperto un
mondo. In generale leggevo, osservavo in silenzio e poi spinta da qualche
suggerimento tra i messaggi facevo ricerche per conto mio. Ma qualche volta,
quando sentivo di avere qualcosa da dire, mi spacciavo per un ragazzo e
scrivevo anch’io. Mi serviva sapere, dietro quello pseudonimo che per me era
una protezione e una legittimazione, che stavo aiutando qualcun*, perché avevo
vissuto la stessa situazione da essere umano e da essere umano potevo
comprendere.
Così, molto presto, ho incominciato ad accorgermi di
quanto il mondo che mi circondava non contemplasse proprio l’ipotesi che una
adolescente come me potesse avere una qualche corrispondenza che serpeggiava
sottopelle con “quei froci invertiti pederasti” (sarebbero serviti altri dieci
anni perché scoppiasse l’epidemia del “Aiuto, il Gender!”, ma l’omofobia e la
bifobia facevano schifo uguale), e cavolo, quanto si sbagliava. Allo stesso
modo in cui si sbagliava quando credeva che fossimo tutti etero fino a prova
contraria. O quando spinto da convinzioni del tutto personali, a cui si
aggrappava con cocciutaggine e che talvolta non si degnava neppure di
argomentare, diceva che i bambini avrebbero subito traumi “dati in pasto a una
coppia lesbica/gay”. O quando… aaaaaargh, che ingiustizia!
Ecco, questo mio scoprire cosa fossero l’empatia e l’Humanitas, anche quando ho fatto il
Classico e ho scoperto cosa significassero per Cicerone e Terenzio, non mi ha
più abbandonato. Neppure nei momenti peggiori, quando il bullismo che sarebbe
durato per dieci anni mi ha fatto dubitare di essere viva, o che la mia
sopravvivenza stessa avesse senso. Non stavo mai zitta, quando a scuola vedevo
un’ingiustizia, e anche se la vittima era molto differente da me, per colore
della pelle, provenienza, presunto orientamento sessuale – a scuola mia non ci
sono state persone LGBT dichiarate, se ce ne sono state – io avrei preso le sue
parti, fosse stata l’ultima cosa che avrei fatto. Tanto mi prendevano in giro
ugualmente, cos’avevo da perdere? (Qualche decibel di dolore di troppo sarebbe
stato un bene perderlo. Ma i miei bulli non erano d’accordo.)
Però aver comprato Stand
By Me – Ricordo di un’estate non ha avuto solo questa conseguenza. Quando,
spinta sempre dalla mia fame di sapere, sono andata a leggere il racconto originale
da cui era tratto, Il corpo di
Stephen King, è stato l’inizio della mia passione per un certo genere di
horror: psicologico, sulla natura umana e su cosa significa perderla, se mai
l’una e l’altra cosa si possono classificare uniformemente. I thriller
psicologici, anche, quelli che grondano dei nostri peggiori incubi, dei quali
rischiamo di cadere vittime e come in una catarsi leggiamo di quelli degli
altri liberandocene una volta per tutte, fino al libro successivo. Perciò,
quando tra le mie coetanee impazzò la moda di Twilight e da fan del Maestro a me fece schifo, mi venne l’idea di
cercare – ancora – se su Internet ci fosse qualcun* altr* che non lo
sopportava.
Oh, c’erano eccome! E su un altro forum nacquero le più
grandi amicizie che io abbia mai avuto in quegli anni bui – alcune perdurarono
per qualche anno nella vita reale, alcune rimasero confinate dietro uno
schermo. Senza abbandonare il nostro senso critico partecipavamo a dibattiti
(gestiti meglio di molti dei nostri politici in quanto ad apertura mentale,
inclusività e tolleranza, devo ammettere!) tra pro e contro, parlavamo di cosa
rendesse o non rendesse un romanzo degno, regole di scrittura prese da
Palahniuk o King stesso, o che superavano
tutti e due gli autori trovando eccezioni o generi per cui non reggevano, e poi
cinema, letteratura, filosofia, temi di attualità (ecco perché il mio primo
approccio col femminismo non poteva che essere dei migliori: all’interno di una
cornice più ampia di cultura, arte e lotta contro ogni discriminazione
arrivavano i suggerimenti su Elena Gianini Belotti e Erica Jong, e arrivavano i
libri più belli che abbia mai letto), e cercavamo di farci forza a vicenda con
i problemi della vita quotidiana. E, sembra destino, molte delle persone che
conobbi erano bisessuali o (poche) omosessuali! Prima di accorgermene ero
dentro la comunità LGBT, anche se non tutti eravamo LGBT – e l’esserlo o non
esserlo non ci creava nessun dilemma amletico. Per me all’epoca non c’erano
problemi su quanto appartenessi a quel mondo, il vero problema era un altro fuori. Fuori dal computer, ero un’adolescente vessata, solitaria, con
pessimi voti in tutte le materie tranne in inglese, una malattia mentale e la
voglia di suicidarsi più spesso che no. Dentro,
invece, ero una scrittrice, una filosofa amatoriale, una editor in via di
formazione, una critica d’arte in via di formazione, una paciera,
un’opinionista, una counselor, una disegnatrice, una spalla su cui piangere,
una saggia dispensatrice di tempo ed energie, un’amica, una persona che veniva
apprezzata per la sua cultura e il suo senso dell’umorismo a prescindere dalla
sua provenienza geografica, dall’età, dalla razza, dall’identità di genere,
dall’orientamento sessuale. Una persona di valore, finalmente.
E poi mi sono innamorata. Gradualmente, ma in maniera
totalizzante, di uno dei ragazzi conosciuti su Internet. Persona intelligente,
affascinante, con arie da genio/eroe tragico e tutto il resto del pacchetto per
far perdere la testa alla sedicenne che ero. Quando l’ho conosciuto ero
consapevole che fosse pansessuale, ma ci ha messo quasi due anni – e io un anno
per ammettere a me stessa che mi ero innamorata – prima di fare coming out come
ragazzo FtM. Lo confesso, sono stata scioccata i primi venti secondi. Dopodiché
mi sono guardata dentro domandandomi se si fosse trasformato qualche cosa, e mi
sono risposta immediatamente: sto cazzo!
Cosa toglieva il fatto che fosse transgender alla persona meravigliosa che
conoscevo? Fategli una statua, per il coraggio che ha avuto nell’esporsi sulla
sua vera identità, e ascoltatelo ogni volta che vorrà parlarne o da persona
profondamente disforica racconterà delle sue paure, dei suoi sogni, dei suoi
traumi, di cosa lo tiene sveglio la notte e del perché ama fare ciò che fa!
Se non fosse che il giovanotto, indipendentemente
dalle motivazioni che l’avevano reso grandioso nella mia testa, era un
narcisista della peggior specie. Che quando il legame ha trasceso Internet è si
è fatto più intenso, sconfinando nella vita reale, non ha esitato a smantellare
un pezzo dopo l’altro quel poco di me che si reggeva in piedi. E così, con la
stazione radio a palla e tanto drama adolescenziale, pillole non prese, un
valzer di strane diagnosi, l’abbandono della scuola perché il bullismo mi ha
impedito di diplomarmi regolarmente, io che scivolavo inesorabilmente nella
depressione, i tentativi di suicidio, la solitudine, drama, drama e ancora più
drama, e cinque anni di pseudoamicizia e pseudoamore solo da parte mia, lui se
ne va dando la colpa a me. Per sempre. E io ci metto un altro anno e tanta
psicoterapia a comprendere che non è colpa mia.
Però io seguo Everyday
Feminism. Non faccio schifo come cercano di farmi credere gli altri,
incluso lui. Amo la filosofia, la musica, la natura. Sono in grado di ascoltare
e confortare gli altri. Sono viva. Ho senso critico a sufficienza da non bermi
quello che mi spacciano per verità assoluta. So scrivere, cazzo, e ho molte più cose da dire di quante non ne
abbia mai avute in passato!
E comunque ero in grado di tenere un comizio su cosa
significasse essere un* adolescente LGBT in Italia negli anni Duemila. Prosa,
poesia, saggio, articolo di giornale, arringa, traduzione, discorso da fare su
un palco, è sufficiente domandare e mi metto al lavoro. Letteratura e
attivismo, attivismo e letteratura, due cose che hanno sempre fatto parte di
me.
Quindi l’ho aperto per davvero, il mio blog, pure se adesso non ci scrivo
più. Ho scritto racconti e romanzi, uno dei quali a scopo terapeutico, per liberarmi
di quelle briciole di lui che mi erano rimaste dentro. E nel cercare, su
Internet, come al solito, informazioni sul protocollo ONIG per le persone
transgender italiane, perché quel ragazzo FtM era quello che ai nostalgici e ai
conservatori piace chiamare “esterofilo”, ho trovato il canale YouTube di FtM
Italia/Voloversolavita2012, che all’epoca stava cercando collaboratori per
l’appena aperto blog. Da prima di vivere una nuova storia d’amore, insieme a
una persona autentica, onesta, che non cerca di fare del male ed è l’opposto di
un narcisista manipolatore, ho cominciato ad aiutare mandando link
interessanti, offrendomi di fare traduzioni, riassumendo video per la pagina
Facebook, calmando le acque durante discussioni sterili e accese, facendomi un
abbozzo di nome tra i follower anche durante i raduni in più parti di Italia,
suggerendo metodi per ampliare e implementare il progetto, ma anche se ero
aperta a tutto, inclusa una sconfitta, il contest per scegliere chi avrebbe
collaborato agli articoli del blog di FtM Italia l’ho vinto io.
Da allora, si può dire che non ho quasi più smesso.
Perché rimangono sempre, gli strascichi di una passione vera, come lo è la mia
per l’attivismo, come lo è la mia convinzione che ogni essere umano abbia il
diritto di essere chi vuole essere, dire quello che vuole dire, prendere quello
che vuole prendere, fare quello che vuole fare. Rimangono dopo quello che
abbiamo passato online, tra collettivi, tre Pride, workshop e seminari di
psicoanalisi aperti a tutt*, incontri con associazioni, perché rimango io,
nonostante le mie umane trasformazioni. Negli ultimi tre anni ho scritto ciò
che ho raccolto in un libro, Volo Verso
La Vita: Guida sentimentale e umana alla transessualità, progetto di
fundraising insieme a e per il mio “collega” e tra i padri
fondatori di FtM Italia Massimo Tiberio B., a cui continuo a restare accanto
come amica e come confidente, anche quando dobbiamo prendere strade differenti.
E rimane il mio tormentone: Qual è stato il tuo primo amore LGBT? Ma chi ti ha tirato dentro? Da quanto sei dentro? E, se ne sei fuori, come mai sei così interessata alla causa? Ma il femminismo, come l’hai scoperto? Voglio dire, non che il femminismo non sia anche delle donne etero e cissessuali, ma il tuo è parecchio, troppo intersezionale, come è possibile? Che ci fai qui?
E già. Sto in questa posizione “unica” – e quelle
virgolette non le ho messe per puro caso, mi servono a ridimensionare – sia
perché è un bel po’ sui generis, sia perché purtroppo finora mi è stato detto
che è l’unica in cui possa rimanere, con un piede fuori e un piede dentro, mai
completamente appartenente a un posto e la frustrazione, talvolta, di dover
spiegare perché non è così impossibile interessarsene e perché ne so. Cosa
rispondo, tra un “Galeotto fu Stand
By Me”, “Tutta colpa di River Phoenix”,
“Sono una persona curiosa” (no,
troppo da etero curiosa, quale io non sono!) o un “La vera domanda è perché è così strano interessarsene”?
Visto che oggi sono nostalgica, dico che “Se non era per un frocio io non nascevo.”
E buona giornata internazionale contro l’omobitransfobia a voi.
Visto che oggi sono nostalgica, dico che “Se non era per un frocio io non nascevo.”
E buona giornata internazionale contro l’omobitransfobia a voi.
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