Romina e Christine le prime trans. 50 anni di storia.

La storia della prima "trans" italiana. Cambiò sesso nel 1962
"Mi mandarono a Volturno di Foggia, ero meglio di Patty Pravo" 

Oggi ha 62 anni: "Sono felice, ho fatto la scelta giusta.

 Quando scese dalla corriera, tra vedove in nero e polli razzolanti, il paese intero trattenne il fiato. "S'aspettavano Romano, arrivai io: Romina". E che Romina: minigonna inguinale, stivali neri sopra il ginocchio, occhiale scuro, permanente platiné: "Ero meglio di Patty Pravo".

Lo sbarco di Romina Cecconi a Volturino di Foggia, dove una pudibonda Repubblica Italiana l'aveva spedita al confino al pari d'un mafioso, fu più o meno come l'arrivo di Boccadirosa nel paesino della canzone di De André. Ancora di più, tre anni dopo, la partenza: "Ero diventata amica di tutti, per qualcuno anche di più...". Questo fu il '68 di Romina, per tutti "la Romanina". E non fu meno rivoluzionario di quello dei cortei. Romina Cecconi non è stata solo una delle primissime transessuali italiane a chiedere al chirurgo di renderle l'identità che da sempre sentiva sua. È stata anche la prima a non vergognarsene, facendo della sua scelta una bandiera di libertà. La pagò cara: umiliazioni, violenze, processi, carcere e, appunto, il confino. Eppure oggi, con i 62 anni che molte donne sempre-state-donne le invidiano, circondata dai ninnoli e dalle specchiere dorate della sua casa bolognese, Romina è soddisfatta della sua vita: "Non rimpiango nulla di Romano: non ero io".

Romano era nato nel momento sbagliato (1941, piena guerra), nel corpo sbagliato, e in un paesino della Garfagnana che per lui aveva tutto di sbagliato, tranne il nome: San Donnino. "E io un donnino mi sentivo, quando ancora non andavo a scuola. Non un maschio gay, proprio una donna. Gli altri bambini aspettavano il Natale, io il carnevale, quando potevo mettermi gonna e rossetto".


Schiaffi, litigi, umiliazioni: per tutti era "la donnicciola". La sua vita non era del tutto disperata, trovò un bel mestiere: doratore di cornici tra gli artigiani di San Frediano. Ma lo perse quasi subito. "Mi venivano a cercare i carabinieri per ammonirmi: guai se continui a uscire con la parrucca. Ma che dovevo fare? Con giacca e capelli corti sembravo solo una lesbica vestita da uomo".

Cosa resta, per chi nasce col corpo sbagliato? "Solo due scelte: il palcoscenico o il marciapiede". Romina provò col primo, finì sul secondo. La sua carriera in una compagnia di girovaghi fu breve: "Facevo l'imitazione di Milva, sai, Quattro vestiti..., me li toglievo uno dopo l'altro...Sulla locandina ero "L'uomo-donna, l'emulo di Coccinelle"...". Ma arrivarono i carabinieri anche lì. "Un prete aveva gridato dall'altare: "in quel circo c'è un diavolo tentatore". Romina, mi disse il capocomico, abbiamo esagerato, torna a casa".

E lei ci tornò, ma mica per starci chiusa. "Uscivamo, io e la mia amica Silvia, con parrucche, tacchi, pantaloni stretti, niente di vistoso, però gli uomini ci guardavano. Qualcuno ci accompagnava a casa, poi ci allungava un bigliettone. Per la buoncostume era prostituzione. Fioccavano le multe: dieci, quindicimila, si accumulavano, e quando la somma fece più di 300 mila, allora sì, per pagarle cominciò la catena di montaggio".

Con una mano di ormoni, il fisico di Romina era super: alta, bel seno, vitino di vespa. Sul Lungarno, Romina era "la donna pipistrello, metà topa metà uccello, e chi non capiva fatti suoi...". Ma c'era poco da ridere: botte dalla polizia, botte dai clienti, "finché un giorno, rapinata, entrai in tribunale vittima e uscii condannata". Da lì fu tutta discesa: fogli di via, "coprifuoco" naturalmente violato, denunce, processi, finché il cumulo delle condanne fece scattare la pena suprema: il confino come "persona socialmente pericolosa".

A dispetto dei giudici, per Romina quello fu il giorno della liberazione, non della repressione. "Ci pensavo fin da quando avevo letto della Jorgensen. Avevo solo 11 anni, ma per me fu un mito. Allora si può fare, dicevo. E quando scattò il confino, che ormai andavo per i trenta, mi dissi: ora o mai più". Casablanca era lontana, ma Losanna no: "Prosciugai il conto in banca e scappai". Costava 700 mila lire togliere quel sovrappiù sotto la cintura. I soldi non bastarono. "Scrissi a mamma: dimentica tutto, aiutami.

Due giorni dopo eccola lì di persona, il mio cuor di mamma, con 500 mila lire in una busta"
, si commuove ancora. Con qualcosa di meno, Romina ebbe molto di più: "La fiducia in me stessa. Ero finalmente quello che sapevo di essere. Non avevo paura di nulla". Né del confino, né del ritorno alla solita vita: "che soddisfazione, due anni dopo, sventolare sotto il naso di un agente i documenti con scritto "sesso: effe"".

Aveva vinto, Romina la testarda. Ma aveva dovuto citare in tribunale l'anagrafe: non c'erano ancora leggi. Grazie a lei ce la fecero anche molte altre, e lei le ha aiutate organizzando scioperi e cortei, andando in televisione. Il resto, un marito, un divorzio, un fidanzato che la convinse a lasciare la strada e a comperare un'edicola a Bologna, scivolò via come una vita qualunque.

Oggi vive coi soldi messi da parte. È rimasta un mito, "la Romanina", il telefono squilla, la invitano ai convegni, alle feste, nei salotti. Un guru della transustanziazione sessuale. Ma lei ha imparato a essere prudente nei consigli.  

"A tutte dico: sappiate che indietro non si torna. Quando toccò a me, non avevo scelta: c'erano solo due sessi, o di qua o di là. Oggi puoi stare in mezzo al guado ed essere felice lo stesso"
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Mezzo secolo fa un ufficiale Usa si trasformò in una donna Da allora, è stata una lunga battaglia, vinta anche in Italia. E George diventò Christine.

Il telegramma che l'ufficiale dell'esercito Usa George Jorgensen spedì da Copenaghen il 2 dicembre di mezzo secolo fa cambiò la sua vita ma anche la storia: "Cari mamma e papà, ho corretto un errore della natura. Da oggi sono vostra figlia". Fino a quel momento chi nasceva uomo moriva uomo. Lei, George, si ribellò: fu la prima. L'evento cacciò dalle prime pagine la notizia dei test della bomba H, cosa che sconcertò lei stessa, Christine Jorgensen, soprannominata "la bionda convertibile", scomparsa dodici anni fa, al termine di una vita ricca e famosa, interamente consacrata alla sua icona di eroina dei transessuali di tutto il pianeta.

Come ogni vera eroina, Christine ha conquistato per le consorelle anche il diritto a non usare la libertà conquistata. "A Christine dobbiamo eterna riconoscenza", s'inchina da Genova Mirella Izzo, presidente dell'associazione di auto-aiuto fra trans Crisalide, "ma la sala operatoria non è più un mito, né una meta obbligata, solo una scelta fra tante". Può sembrare un problema di pochi.

L'Oms calcola che i transessuali (scientificamente, individui affetti da "disforia di genere"; in pratica tutti coloro che si sentono "prigionieri del corpo sbagliato") siano meno di una persona su quarantamila. Per l'Italia stime controverse spaziano dai due ai diecimila individui. Di questi, secondo l'Onig (osservatorio sull'identità di genere), meno di un quarto ha scelto il bisturi. Dunque, minoranza nella minoranza. Ma decenni di polemiche, scontri, scandali ed episodi terribili (come il caso di Rolando Casciotti, che si evirò da solo per protesta) fecero della battaglia transessuale una questione di libertà: il diritto all'autenticità, cioè a "somigliare all'immagine che hai di te", nella splendida sintesi del trans Agrado in un film di Almodovar. Nacque così, nel 1982, la legge 164 che permette di correggere l'anatomia e l'anagrafe, perdipiù a spese delle Usl. Una legge di cui hanno approfittato, secondo le stime dell'andrologo Carlo Bettocchi dell'Università di Bari, poco più di trecento persone.

Eppure le liste d'attesa nella mezza dozzina di centri autorizzati arrivano fino a due anni. "La verità è che molte ci ripensano", spiega Marcella Di Folco, presidente dello storico Mit, il Movimento per l'identità transessuale. Marcella è stata un uomo sufficientemente credibile perché Fellini la scegliesse per la parte del principe nell'episodio di Gradisca in Amarcord: ma si sentiva principessa, e volò a Casablanca, "fra le braccia della mitica infermiera Batoulle", nel 1980, quando aveva già 37 anni. "Il mio unico rimpianto è non averlo fatto vent'anni prima".

Eppure, di fronte all'ardore delle giovani trans di oggi, è perplessa. "Arrivano al nostro consultorio queste ventenni che non si tengono, vorrebbero entrare subito in ospedale, "non sarò felice finché non sarò donna", come se tutte le donne fossero felici...". Voi le dissuadete? "Il nostro pensiero è per la salute fisica e mentale dei transessuali. Le facciamo ragionare". Come? "Il mio consiglio è sempre lo stesso: devi essere tu a volerlo. Non farti obbligare né dal fidanzato, né dall'anagrafe". Dall'anagrafe? Sì, perché operarsi è l'unico modo per cambiare sesso anche sui documenti. La legge non lo esige esplicitamente, ma è la prassi dei tribunali.

"È una legge di normalizzazione", sospira Marcella, "prima di farci diventare donne lo Stato vuole garantirsi che non possiamo diventare papà". "È una sterilizzazione obbligatoria", protesta Mirella, "anche per chi vorrebbe solo non vedere più sorrisetti quando va a votare, o paga con la carta di credito, o cerca un lavoro". La prossima battaglia transessuale ha un nome modesto: "Piccola soluzione", e chiede quel che già è possibile oggi in Germania: poter cambiare nome su carta d'identità e patente (dove già oggi non c'è il sesso). Non eliminerà tutti i problemi e le discriminazioni, ma molti sì. E si fa con la penna, non col bisturi.

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